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Tiziano
Tiziano Vecellio
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1490 ca. - Venezia 1576), pittore italiano; fu l'artista preminente
della scuola veneziana e una delle figure chiave nella storia dell'arte occidentale. Secondo alcune
ricostruzioni della sua biografia, compì la sua formazione artistica con Gentile Bellini e in seguito
con Giovanni Bellini, per quanto nelle sue opere si riconoscano influssi del solo Giovanni.
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L'INFLUENZA DI GIORGIONE
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Il primo documento sull'attività di Tiziano risale al 1508, quando gli fu commissionata, insieme a Giorgione,
la decorazione ad affresco dell'esterno del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, opera di cui
rimangono pochi frammenti. Tiziano fu profondamente influenzato dal pittore di Castelfranco Veneto,
tanto che risulta controversa l'attribuzione di alcuni dipinti del primo decennio del Cinquecento,
come ad esempio L'adultera (Art Gallery, Glasgow); il Concerto campestre (1510 ca., Louvre,
Parigi), un tempo unanimemente attribuito a Giorgione, ora è normalmente ascritto a Tiziano o a una
collaborazione tra i due.
La prima opera datata e certamente di sua mano sono i tre affreschi con i Miracoli di sant'Antonio
da Padova, che Tiziano dipinse per la Scuola del Santo a Padova, nel 1511. In una serie di scene
narrative, i personaggi sono ritratti entro paesaggi descritti in modo quasi impressionistico. Nei quadri
immediatamente successivi di Tiziano, corpi e materia assunsero una densità e una consistenza
sempre più sensuali, le inquadrature nel paesaggio divennero più realistiche, i colori sfumati e intensi,
ma comunque armoniosi: si vedano ad esempio Le tre età dell'uomo (1513 ca., National Gallery,
Edimburgo) e L’Amor sacro e l’Amor profano (1515 ca., Galleria Borghese, Roma). La svolta stilistica
culminò nei tre Baccanali che Tiziano dipinse per il duca di Ferrara, Alfonso d'Este, tra il
1518 e il 1522 (Offerta a Venere e Baccanale degli Andrii, entrambi al Prado, Madrid,
e Bacco e Arianna, National Gallery, Londra).
Gli stessi elementi di sensualità e monumentalità si ritrovano nelle composizioni sacre dell'epoca,
come nella potente Assunta (1516-1518), dipinta per l'altare maggiore della chiesa di Santa Maria
Gloriosa dei Frari a Venezia, con la quale Tiziano si affermò come massimo pittore veneziano. In un'altra
opera per la stessa chiesa, la Pala Pesaro (1518-1526), Tiziano adottò un tipo di
composizione mossa che evoca l'infinito; imitata da Paolo Veronese e dai Carracci (vedi Agostino
Carracci; Annibale Carracci; Ludovico Carracci), finì per diventare uno dei punti di partenza del
barocco. La Madonna con il Bambino non è più collocata al centro della scena, ma di lato, seduta sulla
scalinata di un grandioso tempio di forme antiche accanto a due gigantesche colonne.
Sia nelle opere profane sia in quelle religiose di questo periodo si può apprezzare un'originale rielaborazione
della pittura rinascimentale romana e fiorentina, studiata in particolare nell'interpretazione di
Michelangelo e Raffaello: Tiziano coniuga la monumentalità e il dinamismo dello stile centro-italiano
con il tradizionale cromatismo veneto, la pennellata libera e il luminismo di Giovanni Bellini e
Giorgione.
Celebre fin dal 1516, quando fu nominato pittore ufficiale della Serenissima, Tiziano ricevette commissioni
di ritratti da regnanti, nobili e letterati. Inizialmente vicini alla vena sognante di Giorgione (si
consideri il cosiddetto Ariosto della National Gallery di Londra), assunsero presto una maggiore
corposità e divennero sia immagini idealizzanti e celebrative, sia acuti ritratti psicologici; caratteristico
ne fu il taglio a mezza figura e con le mani in vista, come nell'Uomo dal guanto (1520, Louvre).
Tiziano ritrasse i duchi di Urbino, Ferrara, Mantova, Carlo V (1532-33, Prado) e il papa Paolo III,
conferendo ai soggetti un aristocratico distacco e un'opulenza contenuta, come si vede nel ritratto
di Federigo Gonzaga (1526 ca., Prado). Gli sfondi neutri dei primi ritratti furono talvolta sostituiti
da
elementi scenici sapientemente disposti, rimasti capisaldi del ritratto formale fino ai nostri giorni.
Nell'ultimo periodo della sua vita Tiziano dipinse con maggiore scioltezza e carica espressiva: le forme
perdettero gradualmente solidità, mentre il colore acquistò intensità, steso in pennellate vibranti
(Ratto di Europa, 1559-1562 ca., Gardner Museum, Boston). Ancora più inquietanti sono l'Apollo
e Marsia (1570-1576 ca., Kromeríž, Repubblica Ceca) e Ninfa con pastore (1574 ca.,
Kunsthistorisches Museum, Vienna): qui i colori sono meno sgargianti, ma la pennellata inquieta, della
quale non si troverà l'equivalente fino al Novecento, cancella quasi completamente la forma. Gli
ultimi quadri mitologici di Tiziano, che egli chiamava "poesie", sono formidabili rappresentazioni
della potenza irresistibile e primordiale della natura.
Rientrano in questa produzione tarda anche una serie di opere a soggetto religioso, anch'esse caratterizzate
dalla dissoluzione progressiva della forma in colore e luce, spesso su sfondi bui. Ne sono
esempi l'Annunciazione (1560-1565, chiesa di San Salvatore, Venezia) e il Cristo coronato
di spine (1570 ca., Alte Pinakothek, Monaco). La smaterializzazione delle figure esprime una visione
del
mondo interessata a ciò che sta oltre l'apparenza, mossa da un inquieto spirito di ricerca, anomalo
nel panorama dell'arte rinascimentale: tale tendenza culminò nella Pietà (Galleria dell'Accademia,
Venezia), dipinta da Tiziano per la propria cappella funebre e rimasta incompiuta al momento della morte.
L'opera di Tiziano, che segnò profondamente tutta la pittura europea, inaugurò una tradizione diversa,
ma ugualmente importante, da quella lineare e classicheggiante della scuola fiorentina, cui
appartennero Michelangelo e Raffaello; questo corso alternativo, abbracciato poi da grandi artisti quali
ad esempio Rubens, Velázquez, Rembrandt, Delacroix e gli impressionisti, appare ancora
attuale ai giorni nostri.
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Tiziano Vecellio
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1490 ca. - Venezia 1576), pittore italiano; fu l'artista preminente
della scuola veneziana e una delle figure chiave nella storia dell'arte occidentale. Secondo alcune
ricostruzioni della sua biografia, compì la sua formazione artistica con Gentile Bellini e in seguito
con Giovanni Bellini, per quanto nelle sue opere si riconoscano influssi del solo Giovanni.
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L'INFLUENZA DI GIORGIONE
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Il primo documento sull'attività di Tiziano risale al 1508, quando gli fu commissionata, insieme a Giorgione,
la decorazione ad affresco dell'esterno del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, opera di cui
rimangono pochi frammenti. Tiziano fu profondamente influenzato dal pittore di Castelfranco Veneto,
tanto che risulta controversa l'attribuzione di alcuni dipinti del primo decennio del Cinquecento,
come ad esempio L'adultera (Art Gallery, Glasgow); il Concerto campestre (1510 ca., Louvre,
Parigi), un tempo unanimemente attribuito a Giorgione, ora è normalmente ascritto a Tiziano o a una
collaborazione tra i due.
La prima opera datata e certamente di sua mano sono i tre affreschi con i Miracoli di sant'Antonio
da Padova, che Tiziano dipinse per la Scuola del Santo a Padova, nel 1511. In una serie di scene
narrative, i personaggi sono ritratti entro paesaggi descritti in modo quasi impressionistico. Nei quadri
immediatamente successivi di Tiziano, corpi e materia assunsero una densità e una consistenza
sempre più sensuali, le inquadrature nel paesaggio divennero più realistiche, i colori sfumati e intensi,
ma comunque armoniosi: si vedano ad esempio Le tre età dell'uomo (1513 ca., National Gallery,
Edimburgo) e L’Amor sacro e l’Amor profano (1515 ca., Galleria Borghese, Roma). La svolta stilistica
culminò nei tre Baccanali che Tiziano dipinse per il duca di Ferrara, Alfonso d'Este, tra il
1518 e il 1522 (Offerta a Venere e Baccanale degli Andrii, entrambi al Prado, Madrid,
e Bacco e Arianna, National Gallery, Londra).
Gli stessi elementi di sensualità e monumentalità si ritrovano nelle composizioni sacre dell'epoca,
come nella potente Assunta (1516-1518), dipinta per l'altare maggiore della chiesa di Santa Maria
Gloriosa dei Frari a Venezia, con la quale Tiziano si affermò come massimo pittore veneziano. In un'altra
opera per la stessa chiesa, la Pala Pesaro (1518-1526), Tiziano adottò un tipo di
composizione mossa che evoca l'infinito; imitata da Paolo Veronese e dai Carracci (vedi Agostino
Carracci; Annibale Carracci; Ludovico Carracci), finì per diventare uno dei punti di partenza del
barocco. La Madonna con il Bambino non è più collocata al centro della scena, ma di lato, seduta sulla
scalinata di un grandioso tempio di forme antiche accanto a due gigantesche colonne.
Sia nelle opere profane sia in quelle religiose di questo periodo si può apprezzare un'originale rielaborazione
della pittura rinascimentale romana e fiorentina, studiata in particolare nell'interpretazione di
Michelangelo e Raffaello: Tiziano coniuga la monumentalità e il dinamismo dello stile centro-italiano
con il tradizionale cromatismo veneto, la pennellata libera e il luminismo di Giovanni Bellini e
Giorgione.
Celebre fin dal 1516, quando fu nominato pittore ufficiale della Serenissima, Tiziano ricevette commissioni
di ritratti da regnanti, nobili e letterati. Inizialmente vicini alla vena sognante di Giorgione (si
consideri il cosiddetto Ariosto della National Gallery di Londra), assunsero presto una maggiore
corposità e divennero sia immagini idealizzanti e celebrative, sia acuti ritratti psicologici; caratteristico
ne fu il taglio a mezza figura e con le mani in vista, come nell'Uomo dal guanto (1520, Louvre).
Tiziano ritrasse i duchi di Urbino, Ferrara, Mantova, Carlo V (1532-33, Prado) e il papa Paolo III,
conferendo ai soggetti un aristocratico distacco e un'opulenza contenuta, come si vede nel ritratto
di Federigo Gonzaga (1526 ca., Prado). Gli sfondi neutri dei primi ritratti furono talvolta sostituiti
da
elementi scenici sapientemente disposti, rimasti capisaldi del ritratto formale fino ai nostri giorni.
Nell'ultimo periodo della sua vita Tiziano dipinse con maggiore scioltezza e carica espressiva: le forme
perdettero gradualmente solidità, mentre il colore acquistò intensità, steso in pennellate vibranti
(Ratto di Europa, 1559-1562 ca., Gardner Museum, Boston). Ancora più inquietanti sono l'Apollo
e Marsia (1570-1576 ca., Kromeríž, Repubblica Ceca) e Ninfa con pastore (1574 ca.,
Kunsthistorisches Museum, Vienna): qui i colori sono meno sgargianti, ma la pennellata inquieta, della
quale non si troverà l'equivalente fino al Novecento, cancella quasi completamente la forma. Gli
ultimi quadri mitologici di Tiziano, che egli chiamava "poesie", sono formidabili rappresentazioni
della potenza irresistibile e primordiale della natura.
Rientrano in questa produzione tarda anche una serie di opere a soggetto religioso, anch'esse caratterizzate
dalla dissoluzione progressiva della forma in colore e luce, spesso su sfondi bui. Ne sono
esempi l'Annunciazione (1560-1565, chiesa di San Salvatore, Venezia) e il Cristo coronato
di spine (1570 ca., Alte Pinakothek, Monaco). La smaterializzazione delle figure esprime una visione
del
mondo interessata a ciò che sta oltre l'apparenza, mossa da un inquieto spirito di ricerca, anomalo
nel panorama dell'arte rinascimentale: tale tendenza culminò nella Pietà (Galleria dell'Accademia,
Venezia), dipinta da Tiziano per la propria cappella funebre e rimasta incompiuta al momento della morte.
L'opera di Tiziano, che segnò profondamente tutta la pittura europea, inaugurò una tradizione diversa,
ma ugualmente importante, da quella lineare e classicheggiante della scuola fiorentina, cui
appartennero Michelangelo e Raffaello; questo corso alternativo, abbracciato poi da grandi artisti quali
ad esempio Rubens, Velázquez, Rembrandt, Delacroix e gli impressionisti, appare ancora
attuale ai giorni nostri.
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Venezia nel secolo di Tiziano
Zorzi: Venezia nel secolo di Tiziano
Venezia nel secolo di Tiziano
Alvise Zorzi è un appassionato cultore della storia di Venezia: conosce come forse nessuno i minuti
fasti e nefasti della vita quotidiana della Repubblica. Nel brano che riportiamo descrive il variopinto
abbigliamento dei cittadini della Serenissima nel secolo del suo massimo e glorioso splendore: il Cinquecento.
Se ne ha testimonianza diretta negli scritti di cronachisti, visitatori e amareggiati censori,
come pure nelle opere dei maestri della pittura veneziana del tempo: una vera “festa di colori” che
caratterizzava gli abiti di maggiorenti, ecclesiastici e popolo minuto.
In uno scenario che non aveva paragone in nessun’altra città europea (il serpeggiare dei canali e delle
calli e il fitto assieparsi degli edifici sulle rive potevano trovare possibili analogie soltanto nel
remoto orbe musulmano o, magari, nelle metropoli d’Estremo Oriente descritte due secoli prima dal veneziano
Marco Polo) era presente, infatti, una popolazione che, nonostante la periodica falcidia
delle pestilenze, si mantiene per tutto il secolo attestata intorno ai 150.000 abitanti, con un minimo
di 129.971 nel 1540 e con una punta massima di 168.627 nel 1563. E, nel Cinquecento europeo, le
città con più di centomila abitanti erano ancora assai poche. In tutta Italia non c’era che Napoli che
superasse la popolazione veneziana, con i suoi 209.470 abitanti censiti nel 1591; Palermo ne
contava poco più di 123.000, Milano 120.000, Roma sarebbe arrivata a 113.760 soltanto nell’anno 1600.
Fuori d’Italia, a superare Venezia c’era soltanto Parigi con i suoi 216.000 abitanti censiti
nel 1590: Londra, nel 1581, non ne conta che 100.000, e Lisbona, la temibile concorrente nel commercio
delle spezie, ne ha appena 65.000. E non parliamo delle città del dominio veneziano, dove
Verona, che è la più grande, ne conta, nel 1548, poco più di 52.000 compresi i sobborghi, Brescia 42.660,
Padova 32.025, e dove, alla fine del Cinquecento, Rovigo non ne conterà che 2.473 (ma
Pola, in Istria, 551 appena).
Venezia era dunque la terza città d’Europa e la seconda d’Italia. Con una densità che era, di conseguenza,
elevatissima; nel 1586, quando la popolazione totale è di 148.637 abitanti, la centrale
parrocchia di San Zulian ospita 2.040 abitanti per ettaro d’area fabbricata, e quella di Santa Maria
Mater Domini ben 2.546. Come testimoniano ampiamente i quadri, la folla veneziana era almeno
altrettanto variopinta degli edifici. Carpaccio e Gentile Bellini hanno dato ampio spazio ai forestieri,
soprattutto orientali, Turchi ed Egiziani dai grandi turbanti, che conferivano all’insieme una nota
esotica, non meno dei vogatori negri, per lo più schiavi, arrampicati sulle poppe delle gondole. Ma
se i facoltosi mercanti d’Oriente amavano drappeggiarsi in vistosi caffettani di stoffe rabescate, i
locali non erano da meno. Se, infatti, la veste consueta dei patrizi, degli avvocati, dei notai, dei
medici, degli speziali, dei mercanti e dei borghesi in genere era la toga o dogalina, cioè la
veste talare
nera dalle maniche "a comeo" (a gomito) strette ai polsi e rigonfie ai gomiti, così da poter
tenere nel rigonfiamento la penna, il calamaio, la borsa, arricchita durante l’inverno da bordure e
foderature di
martora, di faina, di volpe, di lupo cerviero, o addirittura di zibellino, i magistrati più importanti
vestivano panni coloratissimi. I Consiglieri ducali, i tre capi del Consiglio dei Dieci, gli Avogadori
di
Comun e il Cancellier Grande portavano toga scarlatta, i Procuratori di San Marco, titolari della dignità
più elevata dopo quella dogale, d’un rosso purpureo, con amplissime maniche "alla ducale"
che
sfioravano quasi terra, i membri del Collegio l’avevano violacea. La stola, o becchetto,
striscia di panno ricadente sulla spalla che faceva parte dell’uniforme patrizia, era di velluto per
i senatori, e di
pesante damasco intessuto d’oro per i cavalieri, detti, per l’appunto, "della stola d’oro":
la loro era l’unica onorificenza concessa ai patrizi. I quali tutti, quando c’era qualche occasione
di solennità o di
cerimonia, barattavano le toghe scure con squillanti toghe scarlatte o paonazze, o cremisi, o d’oro;
anziché di panno, le portavano allora di seta, di velluto o di damasco. Così adorni vediamo spesso i
gravi personaggi ritratti dai maestri della pittura veneziana del Cinquecento.
Anche il clero partecipava a questa festa di colori, e non solo i monaci ed i frati, che indossavano
gli abiti dei rispettivi ordini religiosi, ma anche i sacerdoti secolari, ai quali i decreti del Concilio
di
Trento renderanno obbligatorio, nella seconda metà del secolo, l’uso dell’abito talare (e, via via,
entrerà in uso la veste nera dei sacerdoti romani) ma tra i quali parroci e canonici si facevano notare
per le vesti azzurre i primi, paonazze i secondi, con cinture dorate o argentate, strette in vita.
Dall’abito ecclesiastico prendeva il nome un’altra veste lunga, la pretina, sorta di zimarra
affibbiata fino alla cintura, portata anch’essa dalle persone "di qualità". Lunga fino a terra
era la romana,
unisex, aperta davanti, generalmente nera, usata per casa o per ricevimenti o cerimonie non troppo solenni
(si chiamava così, però, anche il manto degli ammiragli). Di panno, di velluto, di raso, di
cambellotto, stoffa originariamente di pelo di cammello, poi di capra, poi anche di lana o di
seta, di rascia, grosso tessuto di lana spigato, o di canevaccia, tela grossa di canapa,
erano le vesti
maschili. Anche i gentiluomini e le persone di rango, quando non indossavano la toga, si sbizzarrivano
nelle mode correnti, nonostante la riprovazione ufficiale del lusso al quale il poeta Andrea Calmo
attribuiva la "desfation delle fameie", lo sfascio delle famiglie. Cesare Vecellio, nel suo Habiti,
descrive il vestiario dei personaggi che possiamo riconoscere nelle tele del Carpaccio: "la camicia
increspata, ma bassa di collare", le casacchette, o saioni, "a busto basso con le falde fino
al ginocchio" e "certi maniconi che passavano il gomito", adornati di larghe strisce
di panno d’oro e di velluto,
"secondo le ricchezze di ciascuno"; di panno d’oro e di velluto erano anche il pettorale,
il giubbone e le scarpe. Elemento fondamentale del vestiario maschile le calze, in realtà calzebrache
aderentissime a spicchi di colori diversi, indossate dagli uomini di ogni ceto sociale. Più innanzi
nel tempo entreranno in scena i calzoni (braghesse) dello stesso colore del giubbone, di linea
affusolata,
"a coscia di pollo", fino al ginocchio, dove le calze si legavano con nastri variopinti sopra
i cosciali, o sottobraghesse, di lino, di tela o di zendado; le leggi suntuarie pretenderanno
di regolarne la
forma, il tessuto, i ricami, ma certe mode, come quella dei calzoni a palloncino, "alla spagnola",
non attecchiranno per spontaneo rifiuto, come il panserone, cioè l’imbottitura appuntata del
corsetto,
sia maschile che femminile.
Dopo le vesti listate all’uso tedesco, i farsetti, i giustacuori, i roboni di stoffe pregiate o addirittura
preziose, ornati di rare pellicce, entrano in scena gli zipponi, o giubboni, terminanti a punta
sul ventre,
leggermente imbottiti, con maniche affusolate, aperti per far risaltare "camiscie di sommo precio",
adorne di merletti che, via via, prenderanno sempre più piede fino alle grandi fraises di trine
pieghettate e inamidate dei vagheggini del tardo Cinquecento, ricciuti in capo da sembrare, secondo
un poetastro del tempo, "tante puttanelle".
In testa, i gravi senatori, i notai ducali, gli avvocati e le altre persone di rispetto portano la berretta
di velluto a tegame rovesciato. Dalla metà avanzata del secolo in poi, gli elegantoni portano il berretto
alto, "fermato attorno al capo da una posta di velo, ‘ingroppata’ come una rosa". Sulle spalle
il tabarro, o cappa, oppure il cappotto, che altro non è se non una cappa corta, come il gabbano non
è
che un largo soprabito corto.
Anche se non rivestivano panni di damasco o di broccato, gli uomini del popolo sfoggiavano un’eleganza
tutt’altro che dimessa, dalle calze a spicchi di colori diversi (servitori e gondolieri le portavano
con quelli degli stemmi dei padroni) ai vestiti "de pano fin" o di velluto che indossavano
nelle occasioni di festa, quando le popolane si pavoneggiavano in vesti a tinte vivacissime, con una
netta
prevalenza del rosso, "el megio color che al mondo sia". Erano sempre eleganti, le popolane
veneziane, drappeggiate in una sorta di mantellina bianca, il fazzuol, o ninzioleto (letteralmente,
lenzuolino)
di tela fine o di mussola che incorniciava il volto e scendeva sul fianchi, o nella tonda, il
grembiule di lino o di cotone delle ragazze povere, chiamato anche bocasin (dal nome di un tessuto
di cotone),
legato in cintura e rialzato a far da cappuccio.
Ma erano le patrizie e le "cittadine", mogli dei ricchi borghesi, che stupivano i viaggiatori
forestieri per lo scialo di stoffe preziose e di gioielli. Non per nulla la Venezia dei Cinquecento
era la capitale
della moda, produttrice o importatrice delle stoffe più ricche, di seta e di lana. i velluti controtagliati,
i soprarizzi, i rasi sforbiciati o rigati, i damaschi, i broccati e broccatelli intessuti sovente di
fili d’oro
e d’argento; e del commercio delle pietre preziose, ostentate in barba alle ricorrenti norme legislative
contro il lusso. Il tradizionale velo nero che scendeva dal capo sulle spalle e giungeva fino a terra,
progenitore dello zendà che (è stato detto) rendeva più belle le belle, e belle le brutte, era
fermato in fronte dapprima da una cuffia ornata di perle, poi da una sorta di diadema, più o meno ricco,
intrecciato di perle e pietre preziose, come vediamo nel telèr dei Miracoli della Croce
di Gentile Bellini che ci mostra Caterina Cornaro accompagnata da una schiera di dame dal seno stretto
in un
farsetto, ampiamente scollato, anch’esso intessuto di gemme: la ricchissima acconciatura è portata anche
dalla fanciullina, probabilmente una nipote, che Caterina tiene accanto a sé, una mano posata
sulla sua spalla in un gesto affettuosamente protettivo.
Sul tema della moda femminile, elemento di notevole rilievo nel costume, ma anche nell’economia veneziana
(non è soltanto ai nostri giorni che la moda rappresenta un business multimilionario)
ritorneremo ancora. Ma su questa abitudine di ostentare al massimo i gioielli dobbiamo insistere, se
non altro perché è uno dei motivi di meraviglia che più frequentemente ricorrono nelle note dei
viaggiatori stranieri. Le signore veneziane viste nel 1490 da Philippe de Voisins, signore di Montaut,
che passava per Venezia diretto in Terrasanta, portavano sulle vesti "pierreries vaillant chacune
plus
de trente ou quarante mil ducatz"; le venticinque damigelle incontrate dal canonico milanese Pietro
Casola in un ricevimento a palazzo Dolfin avevano indosso "tante zoie tra el capo, in colto et
in mano,
cioè auro, pietre preziose e perle, che era opinione de quelli erano lì, fosse el valsente de cento
miglia ducati" (è difficilissimo azzardare un paragone con i valori d’oggi; possiamo dire soltanto
che il
ducato d’oro veneziano pesava grammi 3,56 d’oro fino, e che, pertanto, al solo valore dell’oro non monetato,
che si aggira, in quest’anno 1989, sulle lire 17.000 al grammo, centomila ducati
varrebbero sei miliardi e cinquantadue milioni di lire). E non si portavano ancora gli orecchini, che
fanno la loro comparsa a Venezia soltanto nel 1525.
Dobbiamo insistere, per la stessa ragione, anche su un’altra singolarità della moda veneziana, il topless,
ovvero, per chiamarlo come lo chiamava uno scrittore francese nel 1578, "l’espoitrinement,
c’est à dire la poitrine toute découverte à la façon de Venise", insomma, l’abitudine di portare
scollature profondissime e senza misteri, e, magari, come notava il citato canonico Casola, che si
meravigliava che i panni non cadessero di dosso alle donne, tanto li allacciavano bassi al petto e sotto
le spalle, di ravvivare i capezzoli col carminio, insomma di farsi "le tete rosse e bianche/e
descoverte per galanteria", come dice uno spassoso poemetto stampato nel 1565.
Un’altra particolarità delle donne veneziane, di carnagione "bianchissima per natura", come
dice Sansovino, erano i capelli di quel biondo caldo e dorato che viene chiamato ancora oggi "biondo
Tiziano" perché lo si riscontra nelle Veneri, nelle Maddalene e negli altri personaggi femminili
del Maestro. Il solito Casola insinuava che, per la maggior parte. si trattasse di "capili comprati":
lui stesso
ne aveva visto vendere in piazza San Marco "in belle pertichate" e se ne era sentito offrire,
benché avesse "la barba longa e canuta". In verità, le veneziane se lo procuravano, quel bel
colore biondo,
esponendo le lunghe capigliature al sole, stese sulle ali della solana, un cappellone di paglia
a tesa molto larga per proteggere il viso, ma priva di cupola. Sedute sulle terrazze o su quei ballatoi
sporgenti che un tempo venivano chiamati liagò e che oggi sono quasi completamente scomparsi.
vestite dell’abito leggero chiamato "schiavonetto" che le copriva tutte, lo specchio in mano
per
sorvegliare le tonalità, bagnavano continuamente i capelli con una spugnetta intinta in "diverse
sorti di acque o liscie" appositamente preparate per accelerare e intensificare l’imbiondimento,
sulla fede
di trattati autorevoli come i Notandissimi segreti dell’arte profumatoria di Gianventura Rossetti,
edito nel 1555, o i Secreti di Isabella Cortese, editi nel 1561. Semplicissime all’inizio del
secolo, le
pettinature diventano via via più bizzarre; dal 1580 in poi si affermano quella a mezzaluna e quella
"a corna", che alza sulla fronte delle dame due morbide corna bionde sulle quali discetterà
con facile
ironia più di un viaggiatore forestiero.
Le donne dei Cinquecento danno grande importanza alla biancheria, mutandoni e camicie sempre bianchissime.
ma spesso ricamate con fili d’oro e d’argento, "vero segno d’animo candido et netto e
di finissimo giudicio", come afferma, ancora, Sansovino: le camicie, arricchite di trine al collo
e ai polsi, si prolungano fino alla raggiera della bavera. Il pesante busto di ferro a punta lunga,
"cagione di
abusi nelle donne gravide" secondo i Provveditori alle Pompe, che si arrabattavano per impedirne
o almeno limitarne l’uso, veniva portato da donne, fanciulle e bambine; soltanto ai primi del Seicento
verrà sostituito da quello a stecche di legno o di osso. Sopra la sottana, o carpetta, generalmente
di damasco a due colori, indossavano la soprana, o veste di sopra, solitamente di velluto liscio
a tinta
unita, costituita da gonna e corpetto, quest’ultimo, chiuso sul davanti verso la metà dei secolo, successivamente
aperto, con le due parti trattenute da un cordoncino. Grossi anelli a girospalla
sostengono abito e maniche, e si fanno più preziosi negli ultimi anni del secolo, quando aumentano anche
i merletti alle bavere e al polsi. Cinture di filigrana dorata rilevano il ventre, del quale, con
l’andare del tempo, si accentua la sottolineatura; le calze sono ricamate, le pianelle di legno sono
intarsiate d’avorio e ricoperte di velluto, ma l’elemento più bizzarro dell’abbigliamento femminile
è
costituito dagli zoccoli, gli altissimi torreggianti zoccoli di legno rivestiti di pelle, di velluto,
di raso, di panno d’oro, alti fino a cinquanta centimetri e passa, che conferiscono alle donne veneziane
del
Cinquecento una statura gigantesca e un passo tentennante ("non vanno secure dal caschare, se non
vanno bene appoggiate a le schiave", osserva il solito Casola), e sulle origini dei quali, attribuite
alla
necessità di non insudiciarsi nella mota, o di salire e scendere più agevolmente di barca sulle rive
sempre bagnate e mucillaginose, qualcuno tirava maliziosamente in ballo la gelosia dei mariti, che
avrebbero tolto alle loro mogli, mediante quella moda assurda e scomodissima, ogni libertà di movimento.
Tutte queste stravaganze, unite all’incrociarsi delle razze e delle lingue, all’affollamento degli edifici,
che risulta in maniera spettacolare nelle piante prospettiche pubblicate nel corso del secolo, alle
dimensioni stesse di molti di cotesti edifici (palazzi altissimi, come quelli dei Loredan a San Marcuola,
dei Corner a San Maurizio o dei Grimani a San Luca erano rarissimi altrove, e trovavano
paragone soltanto nei palazzi fiorentini o in quei "palais romains au front audacieux" che
mettevano in Joachim du Bellay tanta struggente nostalgia per gli spaziosi orizzonti della sua Francia)
contribuivano a creare nei visitatori un’impressione in qualche modo analoga a quelle (il paragone è
stato evocato più e più volte) che può oggi suscitare in uno di noi una visita a New York. A
rafforzare il paragone concorrono tanti altri fattori, la sovrabbondanza e la varietà delle mercanzie
d’ogni genere, la ricchezza degli spacci e degli empori, l’importanza degli stabilimenti bancari e
commerciali, la produttività delle industrie, l’affollamento del Canal Grande e del porto; ed anche
i rischi che ad ogni piè sospinto minacciano i gonzi e gli sprovveduti. Altri aspetti ancora, dall’esistenza
di un turismo galante alimentato dalla presenza di migliaia di donne di malaffare e di decine e decine
di "cortigiane", variante assai più raffinata ed elegante della medesima categoria, alla quotidiana
abbondanza di happening artistici, letterari e teatrali, alla presenza di editori affermati, di letterati
alla moda, di salotti letterari altrettanto frequentati dei negozi di articoli di abbigliamento e d’altro
artigianato d’altissima qualità, farebbero pensare piuttosto alla Parigi tra le due guerre mondiali,
quella cantata e celebrata da Ernest Hemingway in Festa mobile. Mentre l’abbondanza di chiese
e di
reliquie miracolose, anche se non rappresenta più il polo d’attrazione che aveva rappresentato nel Medio
Evo, richiama l’ammirata attenzione di un’altra categoria di visitatori, i pellegrini di Terrasanta,
ancora numerosi a bordo delle navi e delle galere veneziane.
Alvise Zorzi, La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano, Rizzoli, Milano 1990.
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1490 ca-1576
Pieve di Cadore
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